エピソード

  • Ep. 83: Lucrezia Nardi – L’arte come rituale, radicamento e atto politico
    2025/10/21

    Nel nuovo episodio di Torino e Cultura ho incontrato Lucrezia Nardi, curatrice, docente e ricercatrice torinese. La sua voce è quella di chi vive l’arte come una forma di educazione, di emozione e di comunità. “La pratica didattica è strettamente collegata alla curatela,” racconta, “perché entrambe diffondono un pensiero. Il curatore è un’orchestra di relazioni e processi.”Da sette anni insegna Storia dell’arte contemporanea e Storia dell’arte sociale allo IAAD. Per lei, insegnare è un gesto di appartenenza, un modo per restituire ciò che si è imparato viaggiando. Torino è casa, ma anche punto di ritorno dopo tanti spostamenti: New York, Parigi, Belgrado. “Ho frammenti di me in tanti luoghi,” dice. “Il viaggio mi ha insegnato che si può essere radicati e nomadi allo stesso tempo.”L’arte, per Lucrezia, è un atto di generosità. “Fare la curatrice è dare spazio e voce,” spiega. La sua vocazione nasce da una catarsi davanti a una mostra a New York: “Ho provato un’emozione talmente forte da volerla portare agli altri.” Da allora lavora con artisti emergenti, spesso ex studenti, in una relazione di scambio continuo: “Io aiuto loro a crescere, loro aiutano me a imparare.”Descrive il suo mestiere come una tessitura infinita di relazioni che si scompone e si ricrea ogni volta. “Li accompagno, poi li lascio andare. È un processo romantico e ciclico.”Oggi la sua pratica si muove tra Torino e il mondo: ha lavorato con il Museo d’Arte Contemporanea di Belgrado e partecipato alla Biennale di Gwangju in Corea. Ma l’asse resta sempre la relazione tra indipendenza e istituzione. “Ci sono differenze di mezzi e di processi, ma la sostanza è la stessa: il rapporto con le persone.”Al centro di tutto, però, c’è l’emozione. “Io mi occupo di emozioni, non di nient’altro,” dice. “È un pensiero radicale, e quindi politico. Tutto ciò che è umano diventa sociale.”Per lei, l’arte è un modo per curare la solitudine contemporanea. Viviamo frammentati, tra corpi e dispositivi, immersi nelle storie degli altri, eppure isolati. “L’arte è uno spazio per tornare umani.”Negli ultimi anni Lucrezia osserva un ritorno al rituale nell’arte contemporanea: un bisogno di archetipi e gesti antichi anche dentro l’ipertecnologico. “C’è un ritorno all’ancestrale, a un sentire che riporta umanità nel digitale,” spiega.Racconta un momento che l’ha segnata: “A Bruxelles, davanti a un video di Bartolina Xixa, ho pianto. Quella musica me la ricordo ogni volta che mi sento sola.” È in quell’emozione condivisa che ritrova il senso profondo dell’arte: “Andare fuori dalla realtà per ritrovarne una arricchita, dove la solitudine si dissolve.”Come docente, Nardi si interroga su chi decide cosa è degno di essere insegnato. “Posso avere la mia poetica,” dice, “ma devo offrire agli studenti anche estetiche che non mi appartengono. È un atto di apertura.”Insegna pratiche transdisciplinari tra arte e design, e coinvolge gli studenti nei suoi progetti: “La didattica deve essere uno scambio reciproco.”Questo approccio ha trovato una forma concreta nel Barriera Design District, associazione nata per mappare e unire le realtà creative di Barriera di Milano. “Abbiamo scoperto più di 80 luoghi di arte e cultura in poche vie,” spiega. “Ma queste realtà non parlano tra loro. Il nostro obiettivo è connetterle.”Per Lucrezia è anche un modo per lavorare contro la gentrificazione culturale: “Non voglio portare dall’alto il mio contenuto, ma costruirlo insieme alle comunità locali.”In tutto ciò, la domanda che la guida resta sempre la stessa: “Come si fa ad aprire rimanendo fedeli a se stessi?”Una tensione costante tra autenticità e accessibilità, tra estetica e inclusione.Alla fine dell’intervista, sintetizza tutto in una frase che resta:“Noi siamo architetture sensibili, e tutto quello che faccio è per far sentire quello che sento io quando entro in una mostra.”

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    19 分
  • Ep. 82: Giuseppe Culicchia - Dalla provincia al cuore letterario di Torino
    2025/10/14

    Giuseppe Culicchia racconta la sua storia partendo dalle origini: figlio di un barbiere di Grosso Canavese e di un'operaia tessile, è cresciuto in un paesino senza librerie né biblioteche. Eppure, proprio in quel contesto apparentemente privo di stimoli culturali, è nata la sua passione per la lettura, alimentata da un padre che, pur non avendo molti soldi, ordinava volentieri i libri che il figlio desiderava.Il 15 dicembre 1976 segna uno spartiacque nella sua vita. Tornando a casa da scuola, appena undicenne, trovò la famiglia in lacrime: Walter Alasia, suo cugino e figura fraterna, era stato ucciso dopo essere entrato nelle Brigate Rosse. Quel giorno decise che avrebbe raccontato chi era Walter prima di diventare un brigatista. Ci avrebbe impiegato 45 anni.Il percorso verso la scrittura non fu semplice. Scoraggiato dall'iscriversi al liceo classico, frequentò ragioneria studiando materie che detestava. Ma proprio questo lo spinse a rifugiarsi ancora di più nella letteratura. La scoperta di Hemingway, attraverso una copia di "Fiesta" trovata in casa, fu una rivelazione: capì che la scrittura poteva restituire voci autentiche, trasformare personaggi in persone vere.La sua gavetta passa per i luoghi simbolo della cultura torinese: piccole librerie, il primo Salone del Libro del 1988 (dove incontrò Fernanda Pivano, pensando che quella mano aveva stretto quella di Hemingway), la Libreria Internazionale del Salone con i suoi orari massacranti ma che gli garantivano sempre mezza giornata per scrivere.L'incontro con Pier Vittorio Tondelli fu decisivo. Tondelli pubblicò cinque suoi racconti nell'antologia "Under 25-3" del 1990 e gli suggerì di scrivere un romanzo. Nacque così "Tutti giù per terra" (1994, Garzanti), il cui protagonista si chiamava Walter - unico modo che aveva all'epoca per ricordare il cugino.Il grande successo arrivò nel 2005 con "Torino è casa mia" (Laterza), nato dall'idea di raccontare la città come se fosse un appartamento. Il libro vendette 250.000 copie e divenne una guida per chi arrivava a Torino durante le Olimpiadi del 2006, scoprendo una città ben diversa dall'immaginario della "città-fabbrica."Dall'aprile 2025, Culicchia dirige la Fondazione Circolo dei lettori. La sua visione per il Circolo dei lettori e delle lettrici è chiara: non solo presentare novità editoriali, ma anche approfondire il catalogo e promuovere un "Dialogo Aperto", titolo della nuova stagione del Circolo In un'epoca di scontri e contrapposizioni, richiama le parole dell'arcivescovo Zuppi: "Dove cessa il dialogo inizia la barbarie." Uno dei primi cicli di incontri che ha ideato parte dal Novecento italiano: avanguardie artistiche, guerra civile, boom economico, terrorismo e stragi di mafia. Cinque momenti per riflettere sul presente attraverso il passato, quel "secolo breve che fatica a finire."Il primo ciclo di incontri che ha organizzato parte dal Novecento italiano: avanguardie artistiche, guerra civile, boom economico, terrorismo e stragi di mafia. Cinque momenti per riflettere sul presente attraverso il passato, quel "secolo breve che fatica a finire."Culicchia continua a scrivere, lavorando sempre con anticipo. Ha già consegnato diversi libri per i prossimi anni, scritti perché sentiva fossero necessari. Dal paese del Canavese dove ordinava libri attraverso una rivendita, al cuore della cultura torinese: un percorso che dimostra come la letteratura possa cambiare una vita.

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    31 分
  • Ep. 81: Casa Fools - Luigi Orfeo - Opera e teatro come missione di riscatto sociale
    2025/10/02

    Luigi Orfeo è nato e cresciuto nell'area nord di Napoli, a Scampia, e il suo incontro con il teatro è stato quasi accidentale. "Io devo ringraziare tantissimo una parrocchia che fra le varie cose che aveva, aveva un campo di calcetto perché a me lo teatro non portava proprio niente, io giocavo a pallone," racconta con sincerità. Ma quella stessa parrocchia ospitava una compagnia amatoriale che prendeva il teatro come "un impegno serio," e il giovane Luigi rimase incantato guardando le loro prove. A dieci anni aveva già visto quasi tutte le commedie di Eduardo dal vivo, finché non decise di provare a partecipare. Il ricordo è nitido: "Davanti a Filumena Marturano piangevo, ero estasiato."A quattordici anni scrisse il suo primo spettacolo teatrale, che sua madre conserva ancora "col titolo colorato con i pennarelli." Da lì iniziò a fare teatro "come la cosa più naturale del mondo, cioè non sapevo niente del teatro, io lo facevo perché lo facevo e basta." Questo atteggiamento spontaneo è rimasto per tutta la vita: "Io faccio teatro e basta. Sì, poi ho studiato per farlo meglio." Gli studi lo portarono alla Silvio D'Amico, dove incontrò Stefano durante i provini. Da allora, vent'anni insieme nell'avventura dei Fools.Ma la vera rivelazione che ha segnato il percorso artistico di Luigi è arrivata attraverso l'opera lirica. Dopo aver studiato regia operistica, nel 2015 gli offrirono di dirigere la Tosca. "Esaltatissimo accetto, attacco, chiamo mia madre e dico: mamma che bellezza faccio la regia di Tosca." La risposta fu disarmante: "E chi è Tosca?" pensando che fosse una persona. "Io là ho capito la profonda ingiustizia che c'è nel divario culturale."Per Luigi, l'opera lirica rappresenta qualcosa di unico: "È forse la più grande invenzione artistica del genere umano, perché dentro l'opera ci sono tutte le arti che l'umano ha inventato, tutte in un equilibrio perfetto." La musica ha un potere particolare: "Ti pervade prima ancora che arrivi il senso, tu ti trovi a piangere prima ancora di capire perché." Nonostante i suoi successi internazionali - è stato probabilmente il più giovane regista d'opera italiano ad allestire un'opera completa in Medioriente, nell'anfiteatro romano di Amman - qualcosa non andava. Vedeva "gente impellicciata" a teatro mentre "persone che invece ne avrebbero tratto un giovamento incredibile non sapevano niente di tutta quella bellezza."La diagnosi è chiara: "L'opera è un'arte popolare che abbiamo fatto diventare un'arte elitaria." Un'arte che appartiene apparentemente solo "a chi se lo può permettere, sia economicamente che intellettualmente. Cosa assolutamente inverosimile," perché Rigoletto "è stata scritta per sobbillare il popolo e il popolo grazie a Rigoletto ha cominciato a incazzarsi col potere."Da questa consapevolezza è nato Opera Pop, lirica raccontata ad arte, un ponte tra quest'arte e le persone che non solo non ne sanno niente, ma "non ne vogliono sapere niente." Il progetto, iniziato dal vivo e poi trasferito sui podcast durante il Covid, è diventato probabilmente il podcast più ascoltato d'opera lirica in Italia. Luigi ha raccontato opere ovunque: "Dal teatro lirico ufficiale fino a un prato in un orto con le galline sotto i piedi, ma ti dico con le galline sotto i piedi."Il Covid ha insegnato due lezioni fondamentali: "Uno, al potere non gliene frega niente della cultura. Se sparisce è pure meglio, ci levano pensieri. Due, sottostima quanto invece al pubblico, alle persone, questa roba qua piace. Piace perché li unisce, piace perché li fa stare insieme."La missione di Luigi e dei Fools è chiara: diffondere cultura, bellezza e attraverso queste "cercare un modo per ristabilire e creare legami fra le persone." Il successo costante dal Covid in poi non è casuale: "Non perché siamo fighi, perché rispondiamo a un bisogno reale."

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    8 分
  • Ep. 81: Casa Fools - Stefano Sartore - Dal palco alla strada, la cultura invade Vanchiglia
    2025/10/02

    Stefano Sartore è nato nella provincia di Torino, ma il suo percorso verso Casa Fools è passato per Roma. Nel 2004 si è trasferito nella capitale per studiare all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, dove ha incontrato Luigi, il suo futuro socio. "Siamo andati a vivere insieme per caso e nelle stanze di questa casa che abbiamo preso in affitto il primo anno con altri ragazzi è nato il progetto Fools," racconta Sartore. All'epoca era semplicemente "una scusa per degli attori di mettersi intorno ad un letto a leggere dei testi." Da lì sono partiti i primi lavori, hanno gestito un teatro a Roma, ma dopo qualche anno hanno sentito il bisogno di cambiare."Roma ci stava stretta o troppo larga, perché Roma è veramente una metropoli ed è invivibile," spiega Sartore. "Abbiamo deciso di spostarci verso un centro un pochino più a misura d'uomo, in cui la qualità della vita potesse essere anche un pochino più gradevole." Durante le tournée, Stefano studiava ogni città, cercava di capire se fosse un posto dove la cultura potesse crescere. Portava avanti progetti anche a Torino, faceva venire i compagni da Roma. "Alla fine, dopo tutta questa indagine, ci siamo resi conto che Torino era una città che offriva molto. In quel periodo era veramente un arco crescente per la cultura, un terreno molto fertile."L'incontro con Roberta è stato determinante. Cercavano attrici del posto per i primi spettacoli. "Dopo aver lavorato un po' con Roberta, ci siamo guardati e ci siamo detti: questa ragazza, oltre a essere molto brava sulla scena, ha delle caratteristiche interessanti." L'hanno coinvolta nella realtà che è diventata "a tutti gli effetti una nostra realtà di tutte e tre."La filosofia di Casa Fools nasce da un'esigenza profonda. "Questo mestiere purtroppo molto spesso ti trovi in situazioni in cui partecipi a un progetto stretto come può essere uno spettacolo ma non c'è una progettualità lunga," riflette Sartore. "Gli attori sono anche molto spesso un po' egocentrici, in cui non si riesce a creare veramente un rapporto. Noi quello che abbiamo sempre cercato di fare è creare una relazione vera." Quando hanno aperto il teatro, "c'è una enorme comunità che ha aderito a questa cosa, cioè che vuole trovare nel teatro un po' un modo di entrare in connessione con le altre persone."Sartore rivela di essere stato lui, tra i tre soci, a insistere per prendere lo spazio teatrale. Ormai vive tra Torino e la Francia per motivi d'amore, ma quando Luigi e Roberta gli hanno parlato della proposta, ridendo, ha detto: "Ma ragazzi si deve fare."La svolta è arrivata con il Festival delle Arti Popolari. Le feste di inaugurazione stagionale sono cresciute progressivamente: dalla piazzetta Santa Giulia alla strada davanti al teatro. "Ci siamo detti: il teatro non ci basta più, cioè queste quattro mura non ci bastano più. La cultura deve esplodere, ci deve essere questa esplosione in strada." Il primo anno era un solo giorno, poi due, quest'anno cinque giorni con il tema della "ricreazione" - intesa sia come pausa che come ricostruzione. "L'idea che volevamo passare era proprio: lo spazio è vostro, dovete prendervelo, dovete impossessarvene e farlo vostro."L'ultimo festival ha visto la strada piena di persone dalle 10 di mattina alle 11 di sera. "Alla sera siamo saliti sul palco per presentare i gruppi finali e vedevi tutta una testa fino in fondo, fino a Corso Regina ed era una meraviglia." La soddisfazione è palpabile: "Vedere il teatro pieno, vedere la strada invasa, è proprio qualcosa che ti nutre e ti dice: ha un senso fare questa cosa."Non mancano però le difficoltà. Quest'anno hanno dovuto affrontare persino minacce di morte da un vicino infastidito: "Vi voglio morti! Abbiamo dovuto chiamare i carabinieri." Ma nemmeno questo ha rovinato la giornata. "Già a metà giornata questo era dimenticato perché veramente vedere tutte queste persone che aderiscono a questa festa ti riempie il cuore."

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  • Ep. 81: Casa Fools - Roberta Calia - Teatro partecipativo che trasforma gli spazi in comunità
    2025/10/02

    Nel cuore di Vanchiglia, nascosto all'interno di un condominio torinese, si trova uno spazio teatrale che sta ridefinendo il rapporto tra cultura e cittadinanza. Casa Fools, con i suoi 85 posti, rappresenta molto più di un semplice teatro: è un esperimento sociale di partecipazione culturale che da sette anni costruisce comunità attraverso la condivisione delle scelte artistiche.Roberta Calia, attrice e codirettrice artistica di Casa Fools, racconta una storia che inizia nel 2010, quando incontrò una compagnia appena arrivata da Roma che cercava un'attrice. "Sono andata a fare il provino e ho conosciuto i Fools. Dovevano essere i miei compagni di viaggio per una semplice avventura di una produzione e invece da allora non ci siamo più lasciati."L'occasione di rilevare uno spazio si presentò nel 2018, quando il Teatro della Caduta propose di passare il testimone. La reazione iniziale fu un rifiuto: "Ci sembrava che avrebbe arrestato la nostra attività di compagnia di giro." Ma uno dei tre soci ebbe un'intuizione che cambiò tutto: "Lo spazio è proprio quello che ci serve."Così nacque Casa Fools. La scelta del nome riflette una visione precisa: "Il nostro desiderio era che le persone si sentissero a casa, che abitassero un luogo, quindi non solo spettatori, non fruitori di un prodotto culturale, ma persone che abitano uno spazio." Per Calia e i suoi soci, il teatro è sempre stato "uno strumento, non un fine, ma il mezzo per ragionare sulle cose e per stare insieme alle persone."Questo concetto si manifesta concretamente attraverso il Collettivo Cartellone Condiviso. Casa Fools apre una call che riceve centinaia di candidature (quest'anno oltre 350), ma la selezione degli spettacoli non viene fatta solo dalla direzione artistica. "Condividiamo con gli spettatori e le spettatrici la direzione artistica," spiega Calia. Il collettivo, composto da più di 30 persone, include una straordinaria varietà di profili: studenti universitari, pensionati, ingegneri, medici, professori.La diversità genera dibattiti appassionati. "Quando uno spettacolo vale la pena, si accendono anche delle discussioni belle, belle calde, quasi al limite della lite. È bello vedere persone che tifano per uno spettacolo teatrale, una cosa che ha del surreale." La paura di lasciare il controllo c'è sempre: "Chissà cosa verrà fuori quest'anno. Perché lasciare il controllo fa anche paura." Eppure, dopo sette anni, le programmazioni si sono sempre rivelate "super interessanti, super variegate."Il collettivo porta con sé anche il concetto di responsabilità condivisa. "Prendersi una responsabilità è un concetto che nella nostra epoca risuona un po' come un peso," osserva Calia, "invece questa responsabilità noi cerchiamo di intenderla in senso positivo."All'apertura nel 2018, l'accoglienza fu tiepida. "Siamo stati accolti dal clima tipico torinese, con diffidenza, tipo 'guardiamo un po' questi chi sono e che cosa combinano'." Poi la pandemia costrinse alla chiusura per 15 mesi. Ma da questa crisi emerse un cambiamento: "Gli operatori culturali nella difficoltà sono stati costretti a mettersi insieme." Nacquero dialoghi e coprogettazioni che continuano ancora oggi."Abbiamo proprio avvertito un cambio di passo fra la Torino culturale del pre-pandemia e quello che succede da allora fino ad oggi. Ed è per me un passaggio molto positivo che Torino è riuscita a fare." Oggi Casa Fools è fortemente radicata a Vanchiglia, dimostrando che la cultura partecipativa può davvero trasformare non solo uno spazio, ma un'intera comunità.

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    10 分
  • Ep. 80: Giovanni Durbiano – Architettura come pratica pubblica e cultura torinese
    2025/09/08

    In questo episodio di *Torino e Cultura* ho incontrato Giovanni Durbiano, architetto e docente del Politecnico di Torino. La sua storia è quella di un professionista che non ha mai lasciato Torino e che proprio da questo radicamento trae la capacità di leggere la città dall’interno, tra cantieri, musei, vincoli istituzionali e trasformazioni culturali.Il legame con la cultura nasce presto, al liceo, quando insieme al compagno di banco Alessandro Heffler realizza cartoni animati e corti sperimentali. Notati da Steve Della Casa, vincono un premio al Torino Film Festival con *I Tuffi*. Segue un viaggio a Madrid con altri giovani artisti torinesi — da Alessandro Baricco a Mimmo Calopresti — che gli fa intuire quanto la cultura sia soprattutto incontri e occasioni.Poi arriva un momento decisivo: l’incontro con Luca Fiore, disegnatore di talento. «Lui era davvero un artista, io no», ricorda Durbiano. È la consapevolezza che lo spinge a scegliere l’architettura e a vivere l’università con serietà, trovando nel docente Roberto Gabetti un modello di architetto-intellettuale capace di dare forma a una visione del mondo.Con il tempo, però, Durbiano prende le distanze da quel modello: la realtà contemporanea non permette più di basare un progetto sull’autorevolezza del singolo. Decisivo è anche il dialogo con il filosofo Maurizio Ferraris, che lo porta a pensare che siano gli oggetti stessi a produrre effetti, non solo le intenzioni dei progettisti. Nel 2012 fonda lo studio con Alessandro Armando e Manfredo Di Robilant, costruito su questa idea di architettura “menautoriale” e strategica.Da lì in avanti si confronta con alcuni dei luoghi più iconici di Torino — dal Palazzo Reale a Palazzo Carignano, dal Borgo Medievale al Museo regionale di scienze naturali — imparando a gestire l’imprevedibilità dei cantieri pubblici: cambi di amministrazioni, vincoli della soprintendenza, persino la scoperta di una necropoli romana sotto un pavimento radiante.Un caso emblematico è il progetto per il parco archeologico delle Torri Palatine. Lì la scelta non è stata quella di imporre un segno architettonico nuovo, ma di restituire il luogo come giardino aperto, capace di adattarsi a usi e significati diversi. Non erano i turisti a viverlo, ma comunità di migranti che vi proiettavano memorie di altre rovine. Un esempio concreto di come l’architettura debba riconoscere l’imprevedibile e trasformarlo in valore.Per Durbiano l’architettura è soprattutto pubblica e clinica: pubblica perché riguarda chi attraversa e percepisce lo spazio, clinica perché ogni luogo richiede un approccio unico. È un cantiere sempre aperto, soggetto a condizioni imprevedibili, ma anche una promessa progettuale che deve rimanere coerente e raccontabile.C’è infine una lezione che lo accompagna dagli anni dei cartoni animati: non prendersi mai troppo sul serio. «La nostra vita professionale può essere figlia di occasioni, in cui conta poco anche il merito e contano invece la fortuna, gli incontri», dice. È lo sguardo di chi riconosce che ogni opera è sempre il frutto di una costruzione collettiva.Così il racconto di Giovanni Durbiano diventa anche il ritratto di Torino: un laboratorio permanente in cui cultura, storia e futuro si intrecciano, e in cui l’architettura si misura con la sfida di restare fedele a se stessa senza smettere di adattarsi al mondo che cambia.

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    22 分
  • Ep. 79: Valentina Pozzi - Cinema indipendente e comunità creative
    2025/07/08

    Valentina Pozzi aveva un sogno di camice bianco e bisturi, ma il destino le ha messo davanti una macchina da presa. La regista torinese di 42 anni racconta come un incontro con Libero De Rienzo abbia stravolto i suoi piani: "Volevo fare chirurgo plastico e poi ho conosciuto Libero che mi ha detto dai vieni qualche giorno giù a Roma con me. Sono rimasta sei anni là e abbiamo prodotto insieme un film."L'esperienza sul set di "Sangue", primo film di De Rienzo come regista, è stata la sua scuola di vita: "Ho imparato tutto quello che so perché ogni settimana di lavorazione la facevo in ogni reparto." Un cinema "sporco", fatto di imperfezioni e collettività, che sfida le gerarchie tradizionali: "Eravamo un gruppo di zingari del cinema e di operai, ci siamo ritrovati a occupare questo set per sovvertire quelle modalità gerarchiche cementate nel cinema romano."Dopo il ritorno a Torino, Valentina ha costruito un percorso tra videoclip e progetti artistici, collaborando con Boosta, Niccolò Fabi e Willy Peyote. Il videoclip "Io sono l'altro" con Fabi rappresenta un momento di svolta: quello che doveva essere un progetto complesso si è trasformato in intimità autentica. "Ricordo di aver detto a Niccolò: cantala a me, guardami e cantala." Da quella connessione è nato un video che ha commosso tutti sul set.Fabi le ha insegnato la flessibilità creativa: "Mi ha sempre detto che il fatto che decidiamo di far partire le cose in un modo non vuol dire che non dobbiamo avere l'intelligenza di renderci conto quando assumono una forza loro più potente."La poetica di Valentina è caratterizzata da elementi ricorrenti: "Nella maggior parte dei miei video ci sono o i miei cani o degli animali oppure c'è il vento." Il vento diventa metafora di trasformazione: "È un movimento utopico, un moto a luogo, come lo definiscono nell'antica Grecia, il concetto in cui ci dovremmo spostare tutti nella vita."Centrale è la distinzione tra guardare e vedere: "Siamo tutti incentrati sul guardare le cose, ma a volte non le vediamo. È una differenza semantica minima ma gigantesca." Questo si riflette nella predilezione per il cinema imperfetto, dove sfocatura e imperfezione diventano strumenti espressivi.Torino è il palcoscenico dei suoi lavori: "Il grigio torino è una tavolozza incredibile, se hai una superficie piatta puoi farci di tutto." La sua vita artistica si intreccia con quella imprenditoriale attraverso il locale Barbiturici, gestito da 11 anni: "È diventato un catalizzatore di cose artistiche, fa parte del pacchetto Illegal Film."L'Atletico Barbiturici, squadra sportiva che ha fondato, rappresenta la sua filosofia comunitaria: "Ci siamo stufate di fare le cose da soli, vogliamo qualcuno che venga con noi senza giudizio."Il progetto più recente è "Sangue Nostro", documentario dedicato al metodo di De Rienzo, realizzato con Elio Germano: "Racconta la volontà di creare qualcosa insieme in maniera libera e consapevole." Il cerchio che si chiude, celebrando il cinema come atto collettivo per vedere il mondo da angolazioni diverse.

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    28 分
  • Ep. 78: Mathieu Jouvin - Il sovrintendente francese che ha rilanciato il Teatro Regio
    2025/06/24

    Mathieu Jouvin, sovrintendente del Teatro Regio da tre anni, racconta la rinascita di una delle istituzioni culturali più prestigiose d'Italia. Il dirigente francese ha trasformato un teatro in crisi in un punto di riferimento internazionale per l'opera.La passione nasce a Montpellier, dove il nonno faceva la coda all'Opéra Garnier per i biglietti della Callas. A dieci anni vede Carmen, ma il colpo di fulmine arriva a diciassette con Cavalleria Rusticana: "Ho percepito emozioni che non avevo mai percepito nell'arte, un'emozione pazzesca". Da autodidatta, sviluppa un amore per la scoperta che caratterizzerà la sua direzione: "Mi piace molto scoprire e ogni stagione cerchiamo di portare cose meno conosciute per incuriosire".Dopo studi in economia, uno stage all'Opera di Parigi "mi salva la vita". A 24 anni gestisce il budget di 750 persone, imparando ogni mestiere del teatro: "Va bene gestire le cifre, ma se non sai cosa c'è dietro non capisci nulla". Seguono nove anni all'Opera di Lione, dove diventa "migliore opera al mondo", e quattro al Théâtre des Champs-Élysées.L'arrivo a Torino nel 2022 rappresenta la sfida più grande. Il Regio aveva problemi economici e commissariamento. "Mi sono messo nella lavatrice", ammette, descrivendo mesi intensi di riorganizzazione totale. "Il teatro aveva bisogno di essere rimesso a posto, mancavano tante figure apicali", mentre doveva garantire la continuità artistica e programmare il futuro.La strategia richiedeva equilibrio estremo: "Era una tensione permanente tra proporre qualcosa di originale, sapendo che non eravamo attrezzati. Era giocare con il limite". I primi mesi furono difficili, con "telefonate anonime, rumori" e clima mediatico ostile.Il successo arriva gradualmente: premio Abbiatti per Juve, poi per Manon. "Questo ha dimostrato che qualcosa stava succedendo". L'innovazione delle anteprime giovani diventa un fenomeno: "Vedere tutti questi giovani che si sono appropriati il teatro è bellissimo", riflettendo la filosofia "Il Regio è di tutti".La programmazione segue sempre un filo conduttore. "L' Amour Tojours" ruotava intorno a Puccini e l'amore, "La meglio gioventù" sui giovani. La nuova stagione "Rosso" esplorerà "questa tensione tra desiderio e violenza", citando Malraux: "Cerco questa regione dell'anima dove il male si oppone alla fratellanza".Jouvin ama profondamente Torino, citando Eco: "Senza l'Italia Torino sarebbe comunque Torino". Apprezza la modestia e il rapporto serio con il lavoro: "È come un segreto nascosto, un gioiello conosciuto solo da chi sa". La città permette libertà artistica: "Ci sentiamo molto liberi di proporre quello che vogliamo".Oggi la trasformazione è completa: "Non ho più bisogno di intervenire sulla vita quotidiana. Siamo riusciti a rimettere l'organizzazione a posto". Il pubblico dimostra fiducia anche verso titoli meno noti, segno di una rinascita autentica che ha restituito al Teatro Regio la sua identità e prestigio internazionale.

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