Nel nuovo episodio di Torino e Cultura ho incontrato Lucrezia Nardi, curatrice, docente e ricercatrice torinese. La sua voce è quella di chi vive l’arte come una forma di educazione, di emozione e di comunità. “La pratica didattica è strettamente collegata alla curatela,” racconta, “perché entrambe diffondono un pensiero. Il curatore è un’orchestra di relazioni e processi.”Da sette anni insegna Storia dell’arte contemporanea e Storia dell’arte sociale allo IAAD. Per lei, insegnare è un gesto di appartenenza, un modo per restituire ciò che si è imparato viaggiando. Torino è casa, ma anche punto di ritorno dopo tanti spostamenti: New York, Parigi, Belgrado. “Ho frammenti di me in tanti luoghi,” dice. “Il viaggio mi ha insegnato che si può essere radicati e nomadi allo stesso tempo.”L’arte, per Lucrezia, è un atto di generosità. “Fare la curatrice è dare spazio e voce,” spiega. La sua vocazione nasce da una catarsi davanti a una mostra a New York: “Ho provato un’emozione talmente forte da volerla portare agli altri.” Da allora lavora con artisti emergenti, spesso ex studenti, in una relazione di scambio continuo: “Io aiuto loro a crescere, loro aiutano me a imparare.”Descrive il suo mestiere come una tessitura infinita di relazioni che si scompone e si ricrea ogni volta. “Li accompagno, poi li lascio andare. È un processo romantico e ciclico.”Oggi la sua pratica si muove tra Torino e il mondo: ha lavorato con il Museo d’Arte Contemporanea di Belgrado e partecipato alla Biennale di Gwangju in Corea. Ma l’asse resta sempre la relazione tra indipendenza e istituzione. “Ci sono differenze di mezzi e di processi, ma la sostanza è la stessa: il rapporto con le persone.”Al centro di tutto, però, c’è l’emozione. “Io mi occupo di emozioni, non di nient’altro,” dice. “È un pensiero radicale, e quindi politico. Tutto ciò che è umano diventa sociale.”Per lei, l’arte è un modo per curare la solitudine contemporanea. Viviamo frammentati, tra corpi e dispositivi, immersi nelle storie degli altri, eppure isolati. “L’arte è uno spazio per tornare umani.”Negli ultimi anni Lucrezia osserva un ritorno al rituale nell’arte contemporanea: un bisogno di archetipi e gesti antichi anche dentro l’ipertecnologico. “C’è un ritorno all’ancestrale, a un sentire che riporta umanità nel digitale,” spiega.Racconta un momento che l’ha segnata: “A Bruxelles, davanti a un video di Bartolina Xixa, ho pianto. Quella musica me la ricordo ogni volta che mi sento sola.” È in quell’emozione condivisa che ritrova il senso profondo dell’arte: “Andare fuori dalla realtà per ritrovarne una arricchita, dove la solitudine si dissolve.”Come docente, Nardi si interroga su chi decide cosa è degno di essere insegnato. “Posso avere la mia poetica,” dice, “ma devo offrire agli studenti anche estetiche che non mi appartengono. È un atto di apertura.”Insegna pratiche transdisciplinari tra arte e design, e coinvolge gli studenti nei suoi progetti: “La didattica deve essere uno scambio reciproco.”Questo approccio ha trovato una forma concreta nel Barriera Design District, associazione nata per mappare e unire le realtà creative di Barriera di Milano. “Abbiamo scoperto più di 80 luoghi di arte e cultura in poche vie,” spiega. “Ma queste realtà non parlano tra loro. Il nostro obiettivo è connetterle.”Per Lucrezia è anche un modo per lavorare contro la gentrificazione culturale: “Non voglio portare dall’alto il mio contenuto, ma costruirlo insieme alle comunità locali.”In tutto ciò, la domanda che la guida resta sempre la stessa: “Come si fa ad aprire rimanendo fedeli a se stessi?”Una tensione costante tra autenticità e accessibilità, tra estetica e inclusione.Alla fine dell’intervista, sintetizza tutto in una frase che resta:“Noi siamo architetture sensibili, e tutto quello che faccio è per far sentire quello che sento io quando entro in una mostra.”