エピソード

  • Occhi su Gaza, diario di bordo #83
    2025/11/25
    Ci sono parole che non reggono più il peso della realtà. “Tregua”, per esempio. Basta guardare le ultime ventiquattr’ore: a Gaza si recuperano altri corpi dalle macerie ad Al-Maghazi, i bombardamenti su Gaza City e Khan Yunis fanno nuovi morti, le tende gelano nella notte e una famiglia costruisce un muro di fango per ripararsi dal vento. Nelle immagini circolate ieri si vede l’altalena di un bambino ucciso, rimasta appesa al soffitto di una casa sventrata. È così che si misura il fallimento di una parola.
    Israele intanto colpisce Beirut per la prima volta da mesi e uccide il capo di Stato maggiore di Hezbollah. Cinque morti, venticinque feriti. Washington — dicono le agenzie — non era stata informata. L’esercito parla apertamente di “risposte sproporzionate” a eventuali ritorsioni, mentre a nord cresce la paura di un’altra guerra. A Gerusalemme Est i servizi chiudono un teatro palestinese durante un evento per bambini: perfino le fiabe diventano un sospetto.
    Sul terreno la “tregua” ha l’aspetto di soldati che sparano tra le rovine, come nel video che rimbalza ovunque con la frase «Ceasefire is boring». Ha l’aspetto del corpo di un ostaggio recuperato a Nuseirat, e dei robot esplosivi piazzati nei quartieri di Gaza. Ha l’aspetto di un lessico che non salva più nessuno, sospeso tra la diplomazia e il fumo nero che sale dalle macerie.
    La chiamano tregua. Forse per abitudine, forse per convenienza. Ma se tutto questo è tregua, allora la pace è un fantasma che non si vede più. E mentre il mondo discute, Gaza continua a essere un luogo dove si sopravvive più che vivere, dove persino le parole chiedono di essere liberate dalla menzogna.
    Tutti gli occhi devono restare su Gaza. Sempre.


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  • Occhi su Gaza, diario di bordo #82
    2025/11/24
    Voi credereste a una tregua che ogni notte lascia nuovi morti? Nelle ultime ventiquattro ore le agenzie parlano di almeno 24 palestinesi uccisi nei raid israeliani su Rafah, Deir al-Balah, Gaza City. A Rimal un’auto colpita è diventata un cratere: secondo l’ospedale Shifa undici morti e oltre venti feriti, molti bambini. A Nuseirat un’unica esplosione ha cancellato tre generazioni della famiglia Abu Shawish.
    Voi credereste a una tregua mentre una delegazione di Hamas siede al Cairo per discutere la de-escalation e, nelle stesse ore, Netanyahu dichiara che «Hamas viola la tregua» e che Israele «agirà comunque»? È il consueto schema: la diplomazia parla, le bombe parlano più forte.
    Voi credereste a una tregua mentre all’ONU solo Stati Uniti, Israele e Argentina votano contro la risoluzione che chiede di prevenire tortura e trattamenti degradanti? Se il principio viene respinto, la pratica diventa più libera, più impunita.
    E mentre il mondo finge di vedere un cessate il fuoco, la Cisgiordania continua a scorrere fuori quadro: più di mille palestinesi uccisi dal 2023, 217 bambini, secondo B’Tselem.
    Nelle ultime ore Israele ha colpito anche Beirut, uccidendo un dirigente di Hezbollah in un raid che Washington dice di non aver autorizzato. Il fronte non si chiude: si allarga.
    Voi ci credereste a una tregua così? Ecco: non credeteci. Non chiamatela tregua, non permetteteglielo. E chiedete al mondo di alzare gli occhi su questo genocidio lento, lasciando perdere qualsiasi narrazione cosmetica. Per questo tutti gli occhi devono restare su Gaza.

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  • Occhi su Gaza, diario di bordo #81
    2025/11/23
    Nella notte i bombardamenti sono tornati a colpire con forza. Le fonti sanitarie di Gaza parlano di almeno venti morti nei raid su case dove intere famiglie stavano dormendo; la dinamica coincide con quanto riportato dalle corrispondenze di Haaretz e dalle agenzie internazionali. L’IDF sostiene di aver reagito a una «violazione della tregua» attribuita a Hamas. È la stessa formula ripetuta da giorni: l’idea che la tregua sia un dispositivo da accendere e spegnere, una variabile tecnica, mentre la vita delle persone diventa il campo di prova.

    Anche Reuters e Associated Press confermano che migliaia di civili sono stati costretti a spostarsi ancora una volta verso i cosiddetti corridoi umanitari, zone sempre più simili a parcheggi di disperati senza acqua né servizi. Eppure queste condizioni non rientrano mai nel conteggio ufficiale delle “violazioni”. Qui entra in gioco la nostra ossessione per il linguaggio: una parte definisce cosa rompe la tregua; tutto il resto, dalle restrizioni agli aiuti alle case rase al suolo, resta fuori dal quadro.

    La Cisgiordania continua a essere il fronte che quasi nessuno nomina. Nelle ultime ventiquattr’ore si registrano un palestinese ucciso a Nablus, diversi arresti notturni e nuovi assalti dei coloni: dettagli confermati sia dalle équipe dell’ONU sia dalle cronache locali. È una guerra lenta, che non ha bisogno di dichiarazioni ufficiali per proseguire.

    Nel frattempo, in Israele crescono ancora le tensioni interne: le famiglie degli ostaggi temono che ogni escalation allontani l’accordo e accusano il governo di usare la tregua come strumento politico. I giornali israeliani ne parlano apertamente, ma questo non sposta la retorica dei vertici.

    La diplomazia europea continua a ripetere che la tregua è fragile, che serve pazienza. Qui, invece, la tregua appare per quello che è: un guscio vuoto che ogni notte si incrina sotto i colpi. E il linguaggio che dovrebbe proteggerla diventa l’alibi perfetto per non vedere.

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  • Occhi su Gaza, diario di bordo #80
    2025/11/22
    Basta, davvero. A Gaza la parola “tregua” continua a funzionare come un anestetico. L’Unicef conta almeno 67 bambini uccisi dall’inizio del cessate il fuoco, quasi due al giorno. Medici Senza Frontiere racconta un raid del 19 novembre: sei feriti, una bambina di nove anni colpita al volto, un quindicenne, un uomo di 71 anni. Nei comunicati ufficiali tutto questo diventa “incidente”, come se bastasse un sinonimo gentile per cancellare la scena.
    Intanto la mappa della Striscia viene riscritta. L’area gialla controllata dall’esercito supera metà del territorio. A Gaza City i militari avanzano verso Shujaiya, spingendo le famiglie più a ovest dentro quella che le fonti locali chiamano «gabbia». Un uomo sfollato è stato ucciso fuori dalla zona militare, nel punto che l’accordo indicava come relativamente sicuro. Anche questo, nel linguaggio diplomatico, rientra nella “tregua”.
    In Cisgiordania due ragazzi di 18 e 16 anni sono morti dopo un’incursione a Kafr Aqab. A Nablus e Ramallah gruppi di coloni hanno incendiato magazzini e serre, spesso coperti dall’esercito. La guerra non è ferma: è solo descritta come se lo fosse.
    Sul piano politico Israele prepara la “seconda fase” dell’accordo con una task force che include ministri contrari alla tregua stessa. Netanyahu lega la riapertura di Rafah alla restituzione dei corpi degli ostaggi e aggiunge che sarebbe «felice» se l’Egitto permettesse agli abitanti di Gaza di andarsene.
    Ecco perché serve restituire senso alle parole. Se chiamiamo “tregua” giorni in cui si muore, se chiamiamo “pace” un dispositivo di controllo territoriale, allora non stiamo raccontando i fatti: li stiamo coprendo. A Gaza oggi non c’è tregua. C’è una guerra che si prende la libertà di farsi chiamare diversamente.

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  • Occhi su Gaza, diario di bordo #79
    2025/11/21
    Chissà se un giorno ci vergogneremo di avere visto passare un genocidio e dopo averlo ignorato abbiamo cominciato a chiamarlo tregua. A Gaza i numeri arrivano prima delle giustificazioni: 33 palestinesi uccisi, tra cui dodici bambini, in una serie di raid che il Qatar definisce «una pericolosa escalation» capace di far saltare l’accordo appena scritto. La “pax” imposta dalla diplomazia non regge più di un ciclo di bombardamenti.
    Nel frattempo il lessico si muove. L’ambasciatore Usa Mike Huckabee parla di «terrorismo» riferendosi all’ultima ondata di violenze dei coloni in Cisgiordania. È un fatto politico enorme. Ma subito dopo ridimensiona: li chiama «giovani arrabbiati», un modo gentile per non incrinare l’immagine del fronte che la risoluzione dell’Onu vorrebbe trasformare in architrave della nuova Gaza.
    E mentre si discute di definizioni, il rapporto Framing Gaza mostra come la parola “terrorista” venga applicata ai palestinesi con una frequenza sistematica, mentre la violenza israeliana continua a essere incorniciata come autodifesa. La tregua, persino nel linguaggio, resta asimmetrica.
    Sul fronte umanitario l’Oms riesce a vaccinare diecimila bambini in otto giorni. È una corsa contro il rumore dei droni: si inocula finché il cielo resta fermo, poi si chiude tutto e si aspetta. Le stesse ore consegnano nuovi piccoli morti dalle macerie di Khan Younis e Bani Suheila. Siringhe e bombe convivono dentro lo stesso calendario.
    A Bruxelles il gruppo dei donatori discute la “ricostruzione” e l’Italia propone l’addestramento della futura polizia di Gaza fuori da Gaza. Si parla di sicurezza, mai di occupazione.
    Non c’è una tregua da interpretare: ci sono fatti che continuano a produrre vittime, e un lessico internazionale che inseguendo gli equilibri finisce per ignorarle.

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  • Occhi su Gaza, diario di bordo #78
    2025/11/20
    Nelle ultime ventiquattro ore la tregua ha mostrato la frattura più pericolosa: gli attacchi arrivano anche nei corridoi umanitari e nelle aree indicate come sicure. Le ONG descrivono convogli costretti a invertire la marcia, check-point aperti e richiusi senza spiegazioni, itinerari che cambiano all’ultimo minuto. Una tregua che non permette di prevedere neanche un percorso diventa un’architettura instabile, dove ogni movimento espone a un rischio.
    Secondo i dati raccolti dalle organizzazioni locali dal 10 ottobre, giorno dell’entrata in vigore del cessate il fuoco, al 18 novembre, le violazioni documentate sono 393, con almeno 279 morti e più di 650 feriti. Nelle ultime ore si segnalano nuovi attacchi mentre le squadre umanitarie tentavano di raggiungere le famiglie rimaste isolate. Non è la rottura improvvisa di un accordo: è il logoramento quotidiano di una tregua che si incrina a piccoli colpi, fino a svuotare la parola “protezione”.
    La Cisgiordania segue un copione diverso ma complementare. Nell’ultima settimana sono aumentate le aggressioni dei coloni, gli incendi alle proprietà palestinesi e gli arresti degli attivisti israeliani che accompagnano i contadini nella raccolta delle olive. Qui il cessate il fuoco non è mai arrivato: la marginalità del territorio nelle discussioni diplomatiche riflette una gerarchia del conflitto che si ripete da mesi.
    Mentre nelle cancellerie si progettano le “fasi successive”, sul terreno l’unica fase identificabile è l’attesa. Le famiglie misurano il rischio metro dopo metro, gli operatori ripianificano ogni tragitto, e la tregua resta un confine fragile: un accordo che esiste sulle carte più di quanto riesca a esistere nella vita di chi dovrebbe protegge davvero.

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  • Occhi su Gaza, diario di bordo #77
    2025/11/19
    Le prime piogge hanno trasformato le tende in vasche di fango. I bambini dormono sui materassi bagnati, con i vestiti inzuppati di acque reflue. Jan Egeland del Norwegian Refugee Council avverte che «perderemo vite quest’inverno» e che sono state «gettate via settimane cruciali» da quando il piano Trump prometteva l’arrivo degli aiuti. Save the Children parla di 13mila famiglie colpite dagli allagamenti soltanto nell’ultimo fine settimana, 700mila minori esposti al freddo, quattordici bambini morti di ipotermia negli ultimi due inverni. È la fotografia che arriva da Gaza mentre, a migliaia di chilometri, si disegna il suo futuro.
    Nelle stesse ore, il Consiglio di sicurezza approva la risoluzione statunitense che incorpora il piano in venti punti: forza di pace internazionale, smilitarizzazione, “deradicalizzazione”, possibile Stato palestinese a riforme completate. Tredici voti favorevoli, astensione di Russia e Cina. Trump lo celebra come «una delle più grandi approvazioni nella storia delle Nazioni Unite». Le parole scorrono, il fango resta.
    La politica palestinese reagisce divisa: l’Autorità nazionale applaude la risoluzione e chiede «attuazione immediata» in nome della protezione dei civili e della ricostruzione. Hamas denuncia invece una tutela internazionale che toglie neutralità alla forza prevista e affida il disarmo a un meccanismo percepito come coloniale, rifiutando di consegnare le armi e contestando qualunque ruolo israeliano.
    A Tel Aviv, Benjamin Netanyahu rivendica la “completa smilitarizzazione” inscritta nel testo e la possibilità di allargare gli Accordi di Abramo. I vertici militari, intanto, protestano contro la vendita di F-35 all’Arabia Saudita, temendo per la «superiorità aerea» israeliana. Sul tavolo dei negoziati si parla di futuro e sicurezza. Nelle tende allagate, si parla di sopravvivenza.

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  • Occhi su Gaza, diario di bordo #76
    2025/11/18
    A Gaza la pioggia è stata più rapida delle risoluzioni. Nelle ultime ventiquattro ore le tende di Khan Yunis e Deir al-Balah sono crollate sotto il vento, i campi dell’Unrwa allagati, diciotto siti dichiarati “inabitabili”. Alla parrocchia della Sacra Famiglia, più di quattrocento persone cercano riparo mentre i vicoli intorno diventano fango. Eppure l’IDF ha confermato nuovi colpi d’artiglieria nella zona centrale: il “cessate il fuoco sostanziale” si incrina fra le sirene e l’acqua che entra dai teloni sfondati.
    La situazione sanitaria precipita: l’Oms parla di cinquemila bambini in lista d’attesa per interventi essenziali, gli ospedali da campo giordani ed egiziani sospendono attività per mancanza di carburante, la diarrea infantile supera i diciassettemila casi settimanali. La guerra resta nel corpo dei bambini più di qualunque voto al Palazzo di Vetro.
    Dalle carceri arrivano notizie ancora peggiori. Medici per i Diritti Umani–Israele aggiorna a novantotto i morti in custodia dal 2023 e segnala altre quattordici persone scomparse senza notizie alle famiglie. Ex detenuti rilasciati ieri raccontano acqua razionata, luce accesa ventiquattr’ore, numeri al posto dei nomi. Sul piano politico Netanyahuì ha ribadito che Israele manterrà la “responsabilità di sicurezza” su Gaza «per tutto il tempo necessario», smentendo nei fatti l’architettura negoziale in discussione.
    Ai valichi, la normalità è l’intermittenza: Kerem Shalom ha aperto solo per sette ore, chiudendo con duecento camion di aiuti bloccati lato egiziano, comprese le macchine destinate alla ricerca degli ostaggi. E l’Europa manda segnali opposti: Berlino riapre all’export militare, mentre Dublino definisce la mossa «incompatibile con le garanzie umanitarie».
    In questo scenario, il voto dell’Onu esta un esercizio lontano. La realtà, qui, non aspetta i verbali.

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