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Vi cammino una storia con Anderloni

Vi cammino una storia con Anderloni

著者: Gruppo editoriale Athesis
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このコンテンツについて

Cantastorie “di professione” con il teatro, il cinema e la scrittura, Alessandro Anderloni percorre a
piedi ogni settimana un itinerario della provincia di Verona, dalla Lessinia alle Basse, dal Lago alle colline, nel cuore e nella periferia della città, per farsi voce di leggende, fiabe, fatti storici, personaggi della tradizione locale. Racconta l’anima profonda e antica della terra veronese, senza nostalgie, mostrandone i luoghi, respirandone i profumi, dialogando con i rumori.Gruppo editoriale Athesis
旅行記・解説 社会科学
エピソード
  • Santa Lucia
    2025/12/13
    Una produzione Telearena.
    «Santa Lucia, pòrteme un caretin». Nella chiesa di Santa Lucia Extra, sotto l’altare della vergine martire di Siracusa, in una grande bottiglia ci sono le lettere a Santa Lucia. Di buon mattino, prima dell’inizio della scuola, i bambini e le bambine entrano in chiesa per lasciare lì la loro letterina, la stessa che scrisse anche Renzo Poffe, pittore e poeta, quando, il 12 dicembre di tanti anni fa, chiese alla Santa di portargli un caretin.

    Prendo in prestito la sua storia per immaginarmi un bambino di nome Renzo partire a piedi con la mamma dal quartiere di Santa Lucia per andare in Piazza Bra. Non solo per visitare i Banchetti di Santa Lucia, ma per tenere fede al voto di camminare fino alla piazza in cui, nel Medioevo, i bambini giunsero per chiedere alla santa ausiliatrice della vista di guarirli dalla malattia agli occhi che li affliggeva.
    La statua della martire guarda la piazza, dall’alto della facciata di questa che è la sua chiesa in città. Ma la storia del culto di Santa Lucia a Verona è lunga e complessa. L’oratorio che venne costruito qui nel 1518 non fu il primo. Ce n’era un altro più antico che si trovava intra (dentro) le mura della città. Quella che nel quartiere di Santa Lucia possiamo vedere oggi è invece la chiesa che don Pietro Cunego fece erigere a fine Ottocento. Il capitello all’incrocio tra Via Mantovana e Via VI Maggio ha le forme della cella campanaria del suo campanile.

    Immagino Renzo fermarsi davanti al capitello e fare il segno di croce, per poi proseguire sulla strada verso il centro. La maestra gli aveva spiegato che quello era il tracciato di un’antica via romana chiamata Postumia e che a testimoniarlo, poco più avanti, avrebbe trovato un sasso dallo strano nome: cippo gromatico. Oltre il cippo, un muro sbarra oggi l’antica via consolare romana: prima il Forte Werk Schwarzenberg e poi il deposito delle locomotive vennero costruiti a interromperne il tracciato. Per proseguire verso Piazza Bra, Renzo e sua mamma avranno dovuto prenderla larga e, come devo fare io, passare sotto alle linee ferroviarie. A stento respiro nei sottopassaggi. Il rumore del traffico è assordante. Mi chiedo come doveva essere diversa, più silenziosa e quieta, questa periferia, a inizio Novecento. E dove doveva trovarsi l’antico oratorio di Santa Lucia che nel 1308 un drappiere di nome Pace, mercante di lana, fece costruire per voto, dopo che la Santa lo aveva guarito da una mortale cancrena alla gamba.

    La storia delle chiese dedicate a Santa Lucia a Verona è di continue costruzioni, demolizioni e ricostruzioni. Secondo i documenti, un primo oratorio era stato eretto nel 973. Nel 1178 vi era annesso un ospedale gestito da frati. Tutto venne distrutto nel 1260 dalle scorrerie di Ezzelino da Romano. Ricostruito da Pace il drappiere nel Trecento, dopo due secoli anche questo oratorio venne raso al suolo quando, al termine della Guerra della Lega di Cambrai, nel 1518 il Doge di Venezia Andrea Gritti ordinò di “spianare” tutto, case e alberi, nello spazio di un miglior intorno a Verona. Anche l’oratorio di Santa Lucia, che si trovava nella fascia della così detta Spianà, venne demolito.

    Raggiungo l’austriaco Forte Santo Spirito che anch’esso venne costruito su questo lembo di terra spianata, come pure la nuova porta che Sanmicheli progettò per rimpiazzare quella delle mura scaligere. È risalendo Stradone Porta Palio che trovo ciò che rimane dell’altra chiesa dedicata a Santa Lucia, quella intra moenia, dentro le mura. Il convento costruito qui nel 1743 venne manomesso dalle truppe napoleoniche e infine bombardato nella Seconda Guerra Mondiale. Ciò che rimane oggi è la facciata, incastonata tra gli edifici militari.

    La mamma di Renzo, passando di lì, spiegò al bambino che quella era l’antica chiesa di Santa Lucia dentro le mura. Fu allora che lui le chiese perché la Santa porta i regali ai bambini, nella notte del 12 dicembre, e lei glielo raccontò. Tanti anni prima, i bambini e le bambine di Verona camminarono scalzi fino alla chiesa di Sant’Agnese, in Piazza Bra, per chiedere alla santa di Siracusa di guarirli da una terribile malattia agli occhi. Ma era un freddo inverno e i bimbi recalcitravano a camminare senza scarpe. Allora le mamme promisero loro di chiedere a Santa Lucia di ricompensarli di quel sacrificio con dolci e regali. È da allora che la Santa visita a una a una le loro case e porta loro i doni, per ringraziarli di quel pellegrinaggio. Ed è da tempo immemore che il 10 dicembre, arrivavano puntuali in Piazza Bra i venditori di dolciumi e di giocattoli, con i loro pittoreschi banchetti che sono il vero, autentico, popolare mercatino della nostra amata Verona che troppo spesso cerca scorciatoie turistico-commerciali, dimenticando che, fino a ieri, era solo un paese.
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    18 分
  • Dino Coltro
    2025/12/06
    Una produzione Telearena
    Era nato nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1929, nei giorni in cui il mondo contadino festeggia (non commemora) i Santi e i Morti. È la festa della vita, della speranza che ci sia, da qualche parte e in qualche modo, un altrove, per farci trovare pronti di fronte al mistero della morte. Noi, invece, imponiamo ai nostri bambini un’insulsa e inquietante mascherata commerciale, il 31 ottobre, travestendoli da mostri e streghe per stupirci poi se crescono con una cultura della morte e non della vita. È che noi abbiamo dimenticato chi siamo e da dove veniamo. Dino Coltro no. Lui lo sapeva bene e non smetteva di ricordarci che siamo tutti figli dello stesso mondo, contadino e cristiano

    Cammino nei giorni che per i contadini segnano l’inizio dell’anno agrario. Dalla Strà di Coriano, dov’era nato dopo tre giorni di travaglio, il passo è breve per arrivare a Corte Pilastro. Quando mi appare il portale d’ingresso, in fondo al lungo viale, penso alle parole di Coltro quando, a un altro studioso della civiltà veneta, Eugenio Turri, confidò: «Se, quando sarò morto, vorranno farmi una lapide, dovrebbero metterla nella Corte del Pilastro, dove sono cresciuto, con su una scritta “qui sono stato felice”». C’è, all’ingresso, una lapide installata dal Comune di Bonavigo, ma senza quella frase che avrebbe tanto da insegnare.

    La pianura veronese è ancora terra di giovani contadini. Al Pilastro mi accolgono curiosi e sorridenti. Sono felici che io racconti di Dino Coltro, il cui ricordo aleggia vivo tra le stalle, la barchessa e la casa padronale della corte. Già a otto anni Coltro lavorava qui, insieme con il papà Augusto e il nonno Moro da cui raccolse i ricordi che ispirarono il suo primo libro: I leori del socialismo. Lavorava, come tutti i bambini, non come schiavo, ma come figlio di una comunità educante se è vero, come dice il detto, che «ci vuole un intero paese per allevare un bambino».

    Nonno Moro gli raccomandava: «Studia se te vo cambiar el mondo». L’incontro, fortuito, con un frate questuante, fece sì che Dino potesse frequentare prima le scuole elementari a Bonavigo e poi le medie a Riva del Garda. La guerra interruppe i suoi studi regolari, ma da privatista superò l’esame di quinta ginnasio, frequentò il Liceo Cotta di Legnago e si guadagnò infine la licenza magistrale al Montanari di Verona. «Manco male che no’ ò laorà par gnente», gli disse la madre, alla notizia che era diventato maestro.

    Alla Moggia, dove un tempo l’Adige deviava per scorrere verso Este e Montagnana e sfociare in mare vicino a Chioggia, percorro le alzaie su cui immagino cavalli ansimanti a trascinare carretti, carriolanti a portare ghiaia, barcaioli a navigare sul fiume. Nel 1949, quando il padrone di Corte Pilastro trasferì tutti i salariati a Corte Rivalunga, Coltro e la sua famiglia attraversarono il fiume in traghetto, perché il ponte che collegava Bonavigo a Roverchiaretta era stato abbattuto dai bombardamenti.

    «Da queste parti sono i fiumi che comandano», scrisse Coltro. Lungo il fiume trovo un totem del percorso Sulle tracce di Dino Coltro alla scoperta della Pianura Veronese. È il decimo di un itinerario che si snoda per 75 chilometri nei paesi di San Giovanni Lupatoto, Zevio, Ronco all’Adige, Isola Rizza, Roverchiara, Palù e Oppeano. Raccoglie parte dell’eredità del titanico lavoro di ricerca che Coltro iniziò negli anni Cinquanta, registrando le testimonianze della cultura contadina: la sua missione di vita. Sugli scaffali di chiunque voglia studiare questa terra, dovrebbero esserci i cinque volumi di Paese perduto pubblicati tra il 1975 e 1978 dall’ispirato e lungimirante editore veronese Giorgio Bertani. Coltro trascrisse detti, modi di dire, proverbi, sentenze, cantilene, favole, aneddoti, soprannomi e storielle in dialetto, una lingua che canta e narra, che ride e piange, che è la parola creativa da cui nascono la favola e il mito. Con Pasolini, Coltro individuava nella progressiva scomparsa dei dialetti in Italia, la distruzione dei valori secolari della civiltà contadina. E con il dialetto scomparvero le corti, come Corte Medon che mi intenerisce di malinconia, dopo Roverchiara. Ma forse è giusto che finisca così,che restauri bizzarri non vengano ad accanirsi terapeuticamente su edifici che hanno diritto di morire.
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    19 分
  • San Zeno e Bandindon
    2025/11/29
    Pastorale, canna da pesca e mànego per giocare a s-cianco. San Zeno, nella sua basilica, mi guarda e sorride. Sta certamente pensando alla rocambolesca partita con il diavolo Bandindon. Quella volta il demonio, sconfitto dal vescovo moro, fu costretto a volare a Roma a prelevare la coppa di porfido rosso che ora si trova all'ingresso della chiesa, dove un tempo era custodito il Carroccio della Lega Veronese. Sul suo fianco sono impressi i segni delle unghiate del diavolo. Sempre in lotta San Zeno e il demonio. L'acerrimo nemico del vescovo non si rassegnò nemmeno dopo la sua morte, quando volle impedire che le sante spoglie riposassero nella nuova cripta. Nell'807 dovettero scendere dal Monte Baldo due santi eremiti, Benigno e Caro, per traslare la salma, ché la semplice fede dei poveri è più forte dell'ostenta ricchezza di arcidiaconi, vescovi e re. Sulla facciata del capolavoro romanico si leggono non solo i racconti del Vecchio e del Nuovo Testamento, della liberazione di Adelaide di Borgogna e della caccia di Re Teodorico, ma anche i segni della storia popolaresca di questo rione. Gli strani tagli sulle lesene accanto al protiro furono lasciati dai soldati romano-barbarici che usavano affilare le loro spade su queste pietre. Sugli altorilievi accanto al portale ci sono invece singolari incavi tondi. Non sarà stato Minico Bardassa e gli altri monelli cantati da Berto Barbarani a lasciare impresse sulla facciata della basilica queste coppelle levigate. Par di vederli, i ragazzacci, giocare a pallone sulla piazza, e ogni tanto tirare la palla oltre la piera del gnoco (o tàola dei pitochi) su cui, grazie al lascito del medico Tommaso Da Vico, il Venerdì Gnocolaro dodici poveri del quartiere potevano mangiare gnocchi a sazietà. Capitava allora che il pallone finisse dentro all'Arca di Re Pipino, dove i sanzenati volevano dormisse sogni eterni il figlio di Carlo Magno, così che i mocciosi dovevano recuperarla scendendo nel sottosuolo, attenti a non svegliare il sovrano sepolto. Le ha raccolte e trascritte Giuseppe Rama queste e le altre Storie de San Zen, che noi le avremmo dimenticate e non saremmo qui a camminarle. «Lassa che i zuga... dopo i morirà», dice la chiesa, con le parole del poeta, al suo moroso campanile, geloso e infastidito dal chiasso dei bambini sulla piazza. «Ho visto i pari de so pari, i noni / de so noni zugar sempre così...», prosegue ancora la basilica, adusa da mille anni a sopportare le pìrole di legno battute da Minico Bardassa e da tanti disgraziati come lui. È ben contenta di guardare i bambini giocare sulla piazza (ma ci sono ancora?) se perfino San Zeno, un giorno, sfidò a lippa il diavolo Bandindon.
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