『Dino Coltro』のカバーアート

Dino Coltro

Dino Coltro

無料で聴く

ポッドキャストの詳細を見る

このコンテンツについて

Una produzione Telearena
Era nato nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1929, nei giorni in cui il mondo contadino festeggia (non commemora) i Santi e i Morti. È la festa della vita, della speranza che ci sia, da qualche parte e in qualche modo, un altrove, per farci trovare pronti di fronte al mistero della morte. Noi, invece, imponiamo ai nostri bambini un’insulsa e inquietante mascherata commerciale, il 31 ottobre, travestendoli da mostri e streghe per stupirci poi se crescono con una cultura della morte e non della vita. È che noi abbiamo dimenticato chi siamo e da dove veniamo. Dino Coltro no. Lui lo sapeva bene e non smetteva di ricordarci che siamo tutti figli dello stesso mondo, contadino e cristiano

Cammino nei giorni che per i contadini segnano l’inizio dell’anno agrario. Dalla Strà di Coriano, dov’era nato dopo tre giorni di travaglio, il passo è breve per arrivare a Corte Pilastro. Quando mi appare il portale d’ingresso, in fondo al lungo viale, penso alle parole di Coltro quando, a un altro studioso della civiltà veneta, Eugenio Turri, confidò: «Se, quando sarò morto, vorranno farmi una lapide, dovrebbero metterla nella Corte del Pilastro, dove sono cresciuto, con su una scritta “qui sono stato felice”». C’è, all’ingresso, una lapide installata dal Comune di Bonavigo, ma senza quella frase che avrebbe tanto da insegnare.

La pianura veronese è ancora terra di giovani contadini. Al Pilastro mi accolgono curiosi e sorridenti. Sono felici che io racconti di Dino Coltro, il cui ricordo aleggia vivo tra le stalle, la barchessa e la casa padronale della corte. Già a otto anni Coltro lavorava qui, insieme con il papà Augusto e il nonno Moro da cui raccolse i ricordi che ispirarono il suo primo libro: I leori del socialismo. Lavorava, come tutti i bambini, non come schiavo, ma come figlio di una comunità educante se è vero, come dice il detto, che «ci vuole un intero paese per allevare un bambino».

Nonno Moro gli raccomandava: «Studia se te vo cambiar el mondo». L’incontro, fortuito, con un frate questuante, fece sì che Dino potesse frequentare prima le scuole elementari a Bonavigo e poi le medie a Riva del Garda. La guerra interruppe i suoi studi regolari, ma da privatista superò l’esame di quinta ginnasio, frequentò il Liceo Cotta di Legnago e si guadagnò infine la licenza magistrale al Montanari di Verona. «Manco male che no’ ò laorà par gnente», gli disse la madre, alla notizia che era diventato maestro.

Alla Moggia, dove un tempo l’Adige deviava per scorrere verso Este e Montagnana e sfociare in mare vicino a Chioggia, percorro le alzaie su cui immagino cavalli ansimanti a trascinare carretti, carriolanti a portare ghiaia, barcaioli a navigare sul fiume. Nel 1949, quando il padrone di Corte Pilastro trasferì tutti i salariati a Corte Rivalunga, Coltro e la sua famiglia attraversarono il fiume in traghetto, perché il ponte che collegava Bonavigo a Roverchiaretta era stato abbattuto dai bombardamenti.

«Da queste parti sono i fiumi che comandano», scrisse Coltro. Lungo il fiume trovo un totem del percorso Sulle tracce di Dino Coltro alla scoperta della Pianura Veronese. È il decimo di un itinerario che si snoda per 75 chilometri nei paesi di San Giovanni Lupatoto, Zevio, Ronco all’Adige, Isola Rizza, Roverchiara, Palù e Oppeano. Raccoglie parte dell’eredità del titanico lavoro di ricerca che Coltro iniziò negli anni Cinquanta, registrando le testimonianze della cultura contadina: la sua missione di vita. Sugli scaffali di chiunque voglia studiare questa terra, dovrebbero esserci i cinque volumi di Paese perduto pubblicati tra il 1975 e 1978 dall’ispirato e lungimirante editore veronese Giorgio Bertani. Coltro trascrisse detti, modi di dire, proverbi, sentenze, cantilene, favole, aneddoti, soprannomi e storielle in dialetto, una lingua che canta e narra, che ride e piange, che è la parola creativa da cui nascono la favola e il mito. Con Pasolini, Coltro individuava nella progressiva scomparsa dei dialetti in Italia, la distruzione dei valori secolari della civiltà contadina. E con il dialetto scomparvero le corti, come Corte Medon che mi intenerisce di malinconia, dopo Roverchiara. Ma forse è giusto che finisca così,che restauri bizzarri non vengano ad accanirsi terapeuticamente su edifici che hanno diritto di morire.
まだレビューはありません