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Punire tutti, salvare il potere: dottrina Gaza

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Il genocidio è una politica, non un incidente. Il ciclo è chiaro: mentre in Israele decine di migliaia di persone chiedono un accordo per liberare gli ostaggi, il premier attacca chi protesta, equipara i familiari a «fiancheggiatori di Hamas» e avverte che le piazze «garantiscono un nuovo 7 ottobre». È l’uso del dolore come strumento di governo, funzionale a prolungare la guerra e a schiacciare il dissenso.
Sul tavolo, intanto, c’è una nuova proposta di cessate il fuoco mediata da Qatar ed Egitto; le fazioni palestinesi hanno sollecitato Hamas a rispondere. Ma Netanyahu insiste sul pacchetto “tutto in uno”: liberazione completa, resa di Hamas, controllo israeliano su Gaza. Ha ripetuto che le intese parziali «appartengono al passato». Condizioni scritte per non atterrare: l’esito utile non è l’accordo, è il rinvio.
A Gaza la politica diventa geografia: ordini di evacuazione interi quartieri, la parrocchia della Sacra Famiglia avvisa che «si distribuiscono tende». È il trasferimento forzato in forma amministrativa, l’urbanistica della precarietà.
La fame resta l’arma meno rumorosa. Amnesty parla di una strategia deliberata di affamamento: convogli bloccati, infrastrutture distrutte, bambini denutriti. È la distruzione delle condizioni di vita, non un danno collaterale
Chiamare questa sequenza “guerra” oscura la realtà: punizione collettiva, deportazione di fatto, negazione del soccorso. Si può misurare nei corpi e nelle mappe.Finché la comunità internazionale accetterà la semantica dell’emergenza, la politica del genocidio resterà ordinaria amministrazione.

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