エピソード

  • Mapplethorpe, il cortocircuito tra santità e trasgressione
    2025/12/04
    Le fotografie dell'uomo che ha scandalizzato il mondo (ma con una purezza segreta) Ipnotizzati davanti alle straordinarie immagini di Robert Mapplethorpe, ci si chiede se lui sia stato un fotografo o, piuttosto uno scultore. Uno scultore senza pietra né scalpello, ma dotato di uno sguardo preciso, compiuto, capace di immaginare la bellezza come una forma suprema senza tempo. Classica. Ecco perché si intitola «Le forme del classico» la grande mostra in corso fino a gennaio 2026 sull’isola di San Giorgio a Venezia: le stanze della fotografia - progetto di Marsilio Arte con Fondazione di Venezia — ospitano 200 opere dell’artista americano che poi, l’anno prossimo, raggiungeranno Milano e Roma. Se si cammina tra le immagini scelte dal curatore Denis Curti, ci si chiede come sia stato possibile trasformare corpi nudi — alcuni persino ritratti in pose estreme - in immagini prive di ogni banale richiamo carnale, quasi trasfigurate in una surreale aura religiosa.

    Il torso nudo di un ragazzo afroamericano richiama la statuaria greca ma anche l’eros doloroso di San Sebastiano di Andrea Mantegna. C’è Patti Smith, amante prima e amica intima dopo, che sembra una madonna rock, con i capelli lunghi e lo sguardo da ragazza. Come nasce questo cortocircuito tra trasgressione e santità, il vero fuoco della fotografia di Mapplethorpe? Be’, lo ha spiegato lui stesso in un’intervista concessa a Patricia Morrisroe, oggi confluita in una biografia, «Una vita», pubblicata da Marsilio: «La mia vita — le disse Robert - è persino più interessante delle mie opere».

    È vero. Il fotografo che subirà un processo per oscenità, l’artista che ha scandalizzato il perbenismo americano degli Anni Settanta, l’uomo che ha sublimato le pratiche sadomaso in una figurazione lirica e persino trascendente, nacque nel 1946 in una famiglia di origini irlandesi, profondamente cattolica e tradizionale. E non è un paradosso dire che è proprio qui che prende fuoco la prima scintilla di quel cortocircuito di santità e trasgressione. E questa alchimia non ha nulla di teorico, bensì è una questione tecnologica. Negli Anni Settanta il compagno Sam Wagstaff gli regala una macchina fotografica Hasselblad, apparecchio pensato per il formato quadrato. È qui che Mapplethorpe intuisce che racchiudendo in una forma compiuta e armoniosa un’immagine si può conferire a questa un peso simbolico differente, che rimanda alle icone sacre o all’armonia dei classici, molto vicina al divino anche quando si tratta di corpi nudi. Il formato quadrato — o comunque dalle proporzioni perfette — trasfigura il corpo erotico in un corpo vicino alla sfera divina.

    I ragazzi nudi finiscono per sembrare dei martiri, le donne muscolose — come la modella e bodybuilder Lisa Lyon — compaiono come delle modernissime dee greche, i personaggi come Patti Smith o Isabella Rossellini sembrano delle icone. E, a proposito, lo stesso avviene nel percorso artistico di Andy Wharol, cresciuto nella comunità cristiano-ortodossa di Pittsburgh: le sue zuppe pronte, riprodotte in primo piano come il volto di un santo, in un formato che rispetta le regole dell’armonia e delle proporzioni, assumono un aspetto religioso, come di quadro devozionale. La differenza è che Warhol allude alla sacralità della merce, del «prodotto da consumare», mentre i fiori di Mapplethorpe mantengono una forza vitale autonoma, mai passiva, come dei soggetti vivi. È questo il moderno miracolo di Robert Mapplethorpe, quello che giustifica il titolo della mostra e che, in qualche modo, arriva fino a noi: i corpi - nella loro natura più intima — non hanno tempo, colore, etichette erotiche, gabbie ideologiche. I corpi sono quanto di più vicino al divino ci ritroviamo a possedere. La domanda è: ne siamo consapevoli?
    ​rscorranese@corriere.it
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  • Salvador Dalí, il confine tra vero e falso
    2025/12/04
    Perché l'artista catalano ha precorso le provocazioni di Cattelan L’ultimo colpo di scena lo ha messo a punto da morto: nel 2017, quando il suo corpo venne riesumato brevemente per un test del dna, gli analisti rimasero senza parole sollevando il coperchio della bara. I suoi baffetti erano intatti, freschi e disposti all’insù come nei tempi migliori, nonostante i 28 anni di sepoltura. Come per Hercule Poirot, anche per Salvador Dalí i baffi non sono mai stati un banale vezzo: sono stati un’appendice cerebrale, l’estensione di una genialità che per manifestarsi aveva bisogno di simboli.

    I baffetti, il bastone con il pomo dorato, le scarpe coloratissime, le pellicce da primadonna: il catalano nato nel 1904 è stato — tra le tante cose — anche un pioniere dell’artista come «personaggio», macchina pubblicitaria di sé stesso. A partire da ottobre, una mostra a palazzo Cipolla, Roma, ce lo racconterà tra «Rivoluzione e Tradizione», come recita il titolo e penso che sia una sintesi pertinente della sua carriera. Cominciata sotto le stelle più tradizionali, con rigorose lezioni di pittura e di disegno e culminata nella trasgressione più estrema. Una parabola, quella di Dalì, che va inquadrata nel suo tempo: vive nell’epoca delle rivoluzioni culturali, quella di Freud che invitava a guardarsi dentro e quella dei grandi conflitti novecenteschi, trauma per milioni di giovani.

    Entra nel movimento dei surrealisti, un gruppo di intellettuali che reclamava libertà di espressione e di sguardo sul mondo: ma era un movimento apertamente politico, comandato da André Breton. Dalí coglie al volo il paradosso e si dichiara troppo libero anche per i liberi interpreti del sogno e così balla da solo. Provocazioni al limite della legalità, feste da capogiro, modelle e modelli che vagavano nelle case dove lui e Gala, un po’ moglie, un po’ musa e un po’ manager, dichiaravano di vivere senza alcuna regola.

    In lui hanno convissuto il fedele franchista e l’apolitico, l’ammiratore del papa e l’agnostico. «L'unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo», disse. E quanto aveva ragione: fece soldi a palate. Ma quello che davvero ci interessa è il salto estetico che farà più avanti, quando ormai i suoi dipinti e le sue installazioni valevano milioni di dollari: comincerà a firmare dei fogli in bianco che poi i suoi assistenti dipingeranno, inaugurando quello che per tutti è un mercato del falso, ma che per lui è la punta estrema di una creatività moderna, senza alcun padrone, nemmeno del talento. Se negli anni precedenti Marcel Duchamp aveva desacralizzato l’arte esponendo un comune orinatoio, Dalí consacra la firma dell’artista come unico elemento riconoscibile sul piano estetico e valoriale. Non ricorda un po’ il sistema delle griffe di oggi?

    Dalí è stato uno dei precursori del mondo in cui viviamo, nel quale non conta tanto l’oggetto quanto il «brand», non tanto la qualità di un tessuto quanto la firma, non tanto una buona manifattura quanto un sistema di comunicazione e di mercato che fa lievitare il prezzo di una banana fino a 6,2 milioni di dollari, come è successo a Comedian, installazione di Maurizio Cattelan battuta all’asta nel novembre 2024. Ecco perché in Dalì Rivoluzione e Tradizione convivono senza stridori: come convivono genio e buffone, omo ed etero, antico e moderno. In una parola, Dalì è un contemporaneo che non si esaurisce mai. Come i suoi baffetti eterni.
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