Le fotografie dell'uomo che ha scandalizzato il mondo (ma con una purezza segreta) Ipnotizzati davanti alle straordinarie immagini di Robert Mapplethorpe, ci si chiede se lui sia stato un fotografo o, piuttosto uno scultore. Uno scultore senza pietra né scalpello, ma dotato di uno sguardo preciso, compiuto, capace di immaginare la bellezza come una forma suprema senza tempo. Classica. Ecco perché si intitola «Le forme del classico» la grande mostra in corso fino a gennaio 2026 sull’isola di San Giorgio a Venezia: le stanze della fotografia - progetto di Marsilio Arte con Fondazione di Venezia — ospitano 200 opere dell’artista americano che poi, l’anno prossimo, raggiungeranno Milano e Roma. Se si cammina tra le immagini scelte dal curatore Denis Curti, ci si chiede come sia stato possibile trasformare corpi nudi — alcuni persino ritratti in pose estreme - in immagini prive di ogni banale richiamo carnale, quasi trasfigurate in una surreale aura religiosa.
Il torso nudo di un ragazzo afroamericano richiama la statuaria greca ma anche l’eros doloroso di San Sebastiano di Andrea Mantegna. C’è Patti Smith, amante prima e amica intima dopo, che sembra una madonna rock, con i capelli lunghi e lo sguardo da ragazza. Come nasce questo cortocircuito tra trasgressione e santità, il vero fuoco della fotografia di Mapplethorpe? Be’, lo ha spiegato lui stesso in un’intervista concessa a Patricia Morrisroe, oggi confluita in una biografia, «Una vita», pubblicata da Marsilio: «La mia vita — le disse Robert - è persino più interessante delle mie opere».
È vero. Il fotografo che subirà un processo per oscenità, l’artista che ha scandalizzato il perbenismo americano degli Anni Settanta, l’uomo che ha sublimato le pratiche sadomaso in una figurazione lirica e persino trascendente, nacque nel 1946 in una famiglia di origini irlandesi, profondamente cattolica e tradizionale. E non è un paradosso dire che è proprio qui che prende fuoco la prima scintilla di quel cortocircuito di santità e trasgressione. E questa alchimia non ha nulla di teorico, bensì è una questione tecnologica. Negli Anni Settanta il compagno Sam Wagstaff gli regala una macchina fotografica Hasselblad, apparecchio pensato per il formato quadrato. È qui che Mapplethorpe intuisce che racchiudendo in una forma compiuta e armoniosa un’immagine si può conferire a questa un peso simbolico differente, che rimanda alle icone sacre o all’armonia dei classici, molto vicina al divino anche quando si tratta di corpi nudi. Il formato quadrato — o comunque dalle proporzioni perfette — trasfigura il corpo erotico in un corpo vicino alla sfera divina.
I ragazzi nudi finiscono per sembrare dei martiri, le donne muscolose — come la modella e bodybuilder Lisa Lyon — compaiono come delle modernissime dee greche, i personaggi come Patti Smith o Isabella Rossellini sembrano delle icone. E, a proposito, lo stesso avviene nel percorso artistico di Andy Wharol, cresciuto nella comunità cristiano-ortodossa di Pittsburgh: le sue zuppe pronte, riprodotte in primo piano come il volto di un santo, in un formato che rispetta le regole dell’armonia e delle proporzioni, assumono un aspetto religioso, come di quadro devozionale. La differenza è che Warhol allude alla sacralità della merce, del «prodotto da consumare», mentre i fiori di Mapplethorpe mantengono una forza vitale autonoma, mai passiva, come dei soggetti vivi. È questo il moderno miracolo di Robert Mapplethorpe, quello che giustifica il titolo della mostra e che, in qualche modo, arriva fino a noi: i corpi - nella loro natura più intima — non hanno tempo, colore, etichette erotiche, gabbie ideologiche. I corpi sono quanto di più vicino al divino ci ritroviamo a possedere. La domanda è: ne siamo consapevoli?
rscorranese@corriere.it
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